Madonna della Salute, i veneziani rinnovano il voto per la fine della peste del 1630
La Festa, quest'anno, è parte delle celebrazioni per i 1600 anni di Venezia
È un lungo e lento cammino quello che il 21 novembre di ogni anno i veneziani compiono per portare una candela o un cero alla Madonna della Salute.
Madonna della Salute, i veneziani rinnovano il voto per la fine della peste del 1630
Non c’è vento, pioggia o neve che tenga, alla Salute è un dovere andare per pregare e chiedere alla Madonna protezione per sé e i propri cari. Una lenta e lunga processione che viene fatta a piedi, in compagnia della famiglia o degli amici più cari, attraversando come da tradizione il ponte votivo galleggiante, che ogni anno viene posizionato per collegare il sestiere di San Marco a quello di Dorsoduro.
Proprio come quattro secoli fa, quando il doge Nicolò Contarini e il patriarca Giovanni Tiepolo organizzarono, per tre giorni e per tre notti, una processione di preghiera che raccolse tutti i cittadini sopravvissuti alla peste. I veneziani fecero voto solenne alla Madonna che avrebbero costruito un tempio in suo onore se la città fosse sopravvissuta all’epidemia.
Il legame tra Venezia e la peste è fatto di morte e di sofferenza, ma anche di rivalsa e di volontà e forza di lottare e ripartire. La Serenissima ricorda due grandi pestilenze, delle quali la città porta ancora i segni. Episodi drammatici che causarono in pochi mesi decine di migliaia di morti: tra il 954 e il 1793 Venezia registrò in totale sessantanove episodi di pestilenze. Tra questi, la più importante fu quella del 1630, che portò poi all’edificazione del tempio della Salute, a firma di Baldassare Longhena, e che costò alla Repubblica 450 mila ducati.
La peste si propagò a macchia d’olio, prima nel rione di San Vio, poi in tutta la città, aiutata anche dall’incoscienza dei mercanti che rivendevano gli indumenti dei morti. Gli allora 150 mila abitanti vennero presi dal panico, i lazzaretti erano stracolmi, negli angoli delle calli venivano abbandonati i cadaveri dei morti da contagio. Il patriarca Giovanni Tiepolo ordinò che dal 23 al 30 settembre del 1630 si tenessero delle preghiere pubbliche in tutta la città, specialmente nella cattedrale di San Pietro di Castello, allora sede patriarcale.
A queste preghiere si unirono il doge Nicolò Contarini e tutto il Senato. Il 22 ottobre si deliberò che per 15 sabati si dovesse svolgere una processione in onore della Maria Nicopeja. Ma la peste continuava a mietere vittime. Solo nel mese di novembre si registrarono quasi 12 mila vittime. Intanto si continuava a pregare la Madonna e il Senato deliberò che, così come accadde nel 1576 con il voto al Redentore, si facesse voto di edificare una chiesa da dedicare alla “Vergine Santissima, intitolandola Santa Maria della Salute”.
Inoltre, il Senato deliberò che ogni anno, nel giorno ufficiale della fine del contagio, i dogi dovessero andare solennemente a visitare questa chiesa, a memoria della gratitudine verso la Madonna. Furono stanziati i primi ducati d’oro e nel gennaio del 1632 si cominciarono a smantellare le mura delle case vecchie nell’area adiacente a Punta della Dogana. La peste, finalmente decrebbe. Con quasi 50mila vittime solo a Venezia, il morbo aveva messo in ginocchio anche tutto il territorio della Serenissima, registrando circa 700 mila morti in due anni. Il tempio venne consacrato il 9 novembre del 1687, dopo mezzo secolo dal propagarsi del morbo, e la data della festa fu spostata ufficialmente al 21 novembre.
E il voto fatto si ricorda anche a tavola. Solo per una settimana all’anno, in occasione della Madonna della Salute, si può infatti gustare la “castradina”, un piatto a base di montone che nasce come un omaggio ai Dalmati. Perché durante la pandemia solo i Dalmati continuarono ad approvvigionare la città trasportando nei trabaccoli la carne di montone affumicata. La spalla e la coscia del castrato o agnellone venivano preparate quasi come i prosciutti di oggi, salate e massaggiate con una concia fatta da un mix di sale, pepe nero, chiodi di garofano, bacche di ginepro e fiori di finocchietto selvatico. Dopo la preparazione, i pezzi di carne venivano asciugati e affumicati leggermente e appesi all’esterno dei camini per almeno quaranta giorni.
Sull’origine del nome “castradina” ci sono due ipotesi: la prima che derivi da “castra”, le caserme e i depositi delle fortezze dei veneziani sparse nelle isole dei loro possedimenti, dove venivano conservate le vivande per le truppe e i marinai schiavoni delle galere; la seconda che sia un diminutivo di “castrà”, termine popolare per castrato di montone o agnello. La cottura del piatto è piuttosto elaborata perché richiede una lunga preparazione, che dura tre giorni come la processione in ricordo della fine della peste. La carne viene infatti bollita per tre volte in tre giorni, per permetterne la sua purificazione e farla diventare tenera; si procede poi con la cottura lenta, per ore, e con l’aggiunta delle verze che la trasformano in una zuppa saporita.