La cerusa o bianco di Venezia: la polvere corrosiva che rendeva bianco il viso delle nobildonne...
Era simbolo di purezza, ma in realtà questa abitudini aveva delle conseguenze terribili sulla salute delle donne.
Una pelle bianchissima per sfoggiare in ogni occasione mondana un viso di porcellana. Ma cosa si nascondeva dietro questa "tradizione"?
La cerusa o bianco di Venezia: la polvere corrosiva che rendeva bianco il viso delle nobildonne...
Era questo il miglior biglietto da visita delle nobildonne veneziane che volevano trovare marito: un biancore che fosse simbolo di purezza, ma che nascondesse anche gli eventuali segni lasciati dalle scarse norme igieniche o da malattie. Anche perché la pelle abbronzata era prerogativa di chi lavorava tutto il giorno all’aria aperta, quindi di umile estrazione sociale.
Ad aiutare le donne a raggiungere questo risultato c’erano gli spezieri e i muschieri, che preparavano acque profumate e impacchi di bellezza. Ma spesso questi intrugli non bastavano a raggiungere lo scopo e le dame si applicavano su tutto il viso e sul décolleté uno strato di cerone che riduceva anche l’espressività del volto. Una sorta di cipria, in polvere, che veniva per comodità lavorata sotto forma di palline, lasciata seccare e poi ridotta di nuovo in polvere, all’occorrenza, con un mortaio.
Le polveri erano composte da metalli altamente tossici, come il bianco di piombo, chiamato “biacca” - presto nota con il nome di cerusa perché richiamava il candore della cera delle candele - o il sublimato di mercurio, chiamato anche “fuoco di Sant’Elmo”, che mangiava le rughe, le cicatrici e, purtroppo, anche i lineamenti. Un cerchio senza fine: perché il risultato era che le donne applicavano una maggior quantità di preparato per coprire i segni che deturpavano il volto.
Questo belletto offriva una grande copertura, ad effetto opaco, ed era in grado di eliminare le imperfezioni della pelle, levigandola e schiarendola, tuttavia aveva appunto un forte potere corrosivo. Insomma, all’applicazione di questa copertura col tempo seguivano infiammazioni agli occhi, caduta di capelli e sopracciglia (che venivano sostituite da sopracciglia posticce in pelliccia di talpa e topo), annerimento dei denti, paralisi, infertilità e si poteva arrivare anche alla morte. Insomma, belle da morire non era poi solo un modo di dire.
Se poi una donna voleva esprimere la vitalità della giovinezza, quindi simbolo di passione e fertilità, doveva anche mostrarsi in salute. Dopo aver applicato il belletto, le gote venivano perciò colorate con un rosso acceso, un rouge o fard preparato con zafferano turco, resine, legno del brasile, sandalo e cocciniglia, oppure venivano usati metalli e minerali come il cinabro, vermiglio e minio, anche questi velenosi per la pelle.
Fin dal Medioevo, Venezia fu uno dei principali luoghi di produzione in Europa della biacca, in dialetto “sbiaca”, che era utilizzata anche come pittura o medicamento. La sua biacca era tanto famosa da far sì che questo colore fosse noto anche come “bianco veneziano”, o “bianco di Venezia”.
Oggi ne rimane traccia nella toponomastica cittadina, come Calle de la Sbiaca, vicino al Rio Novo, dove esisteva una rinomata bottega del pregiato bianco veneziano.
In copertina una foto tratta dal web (avevamo qualche difficoltà nel reperire l'immagine di una dama veneziana)